Ballo in maschera, gettare la maschera, l’uomo mascherato, ti conosco mascherina…Quante parole usiamo senza accorgerci davvero di usarle, senza pensare al loro significato concreto. Maschera è una delle tante, o meglio lo era.
Quante volte, riferendoci ad un paziente del Servizio, abbiamo pensato che fosse ambiguo, che non ci dicesse tutto, che non si dicesse tutto, insomma, che si nascondesse dietro una “maschera”?
Quante volte si è detto e teorizzato che la tossicodipendenza e i comportamenti additivi in generale non fossero e non siano altro che dei paraventi, delle maschere appunto, dietro i quali ciascuno nasconde, o si nasconde, le proprie debolezze e le proprie fragilità?
Quante volte abbiamo provato a far sì che quella maschera virtuale cadesse?
Tante, è il nostro lavoro.
Così come tante sono state le occasioni in cui la maschera l’abbiamo indossata noi: per non farci coinvolgere troppo, per non “portare” il lavoro a casa e la “casa” al lavoro.
Poi sono arrivate le maschere vere. Quelle che tutti siamo obbligati a portare non solo perché ci dobbiamo proteggere, ma anche per salvaguardare chi abbiamo di fronte. Sono cominciati i “colloqui mascherati”, due maschere(ine) a confronto.
Il primo, per me, è stato con una ragazza molto giovane: capelli azzurri e mascherina a fiori. Non è stato un bel colloquio. Lei qui non ci voleva e non ci vuole venire, dice poche parole e quelle poche fatico a capirle così come lei fatica a capire le mie, che sono di più ma altrettanto difficili da comprendere; le mascherine svolgono egregiamente il loro lavoro.
Pur sforzandomi, mi rendo conto di non riuscire a concentrarmi come vorrei e come sarebbe giusto fare. Devo ammetterlo, per quasi tutta la durata del colloquio la mia attenzione è continuata a ricadere sulle mascherine, la sua e la mia. Lei raddrizza la sua io raddrizzo la mia, io l’abbasso un po’ per poter respirare meglio lei fa altrettanto… movimenti quasi sincronizzati, come ci stessimo riflettendo allo specchio. No, decisamente non è stato un colloquio facile e lei, dopo quel primo contatto non è più tornata.
Da allora sono passati quasi due mesi, ci sono statti tanti altri colloqui, tante altre mascherine alle quali, ormai, quasi non bado più.
Quella prima volta, però, continua a tornarmi in mente. Mi torna in mente la fatica provata quei brevi momenti. L’abitudine a gestire maschere metaforiche non mi è stata di nessun aiuto di fronte ad una maschera vera; ho scoperto quanto distacco, quanto disturbo e quanta distrazione possono provocare pochi centimetri di stoffa e questo mi ha fatto riflettere.
Se una piccola maschera reale può creare tanta distanza, quanta ne possono provocare decine di maschere virtuali stratificatesi su luoghi comuni, abitudini, paure…
Un conto è “teorizzare” la maschera, un conto è indossarla fisicamente. Forse sarebbe bastato partire da qui, forse avrei dovuto socializzare il mio disagio e “smascherarmi”, magari l’avrebbe fatto anche lei.
Credo che lo farò, o almeno, ci proverò.